Alberto Macario
Macario nell’immaginario collettivo
In un mondo in cui tutto viene spottizzato e divorato, incluso lo stesso mondo per cui si spottizza, la rivelazione (attraverso le due puntate televisive di Giancarlo Governi Lo vedi come sei? per Rai Due) che Erminio Macario sia stato anche protagonista del primo Carosello della storia con cui è iniziata la pubblicità televisiva, fa notizia.
La risposta alla domanda “perché Macario e non Totò o Peppino o Rascel”, ci arriva dal commediografo Enrico Bassano: «Macario è AMICO del pubblico, come lo furono Fregoli e Petrolini. Si può essere magnifici applauditissimi attori comici e non possedere il dono dell’AMICIZIA. Avere il pubblico amico è dote non comune, anzi rara. Vuol dire possedere appieno quella carica di simpatia umana che stende immediati rapporti di ottimismo e commozione tra scena e platea; vuol dire possedere quell’impoderabile dono di natura ch’è la bontà a prima vista, l’ottimismo a fior di pelle, la cordialità in tutti i pori. È un bel po’ di anni che Macario ha impiantato in palcoscenico la sua “maschera”, l’ultima, forse la definitiva “maschera” del teatro italiano, eppure si prova sempre la felice sensazione che egli sia nato sulla scena pochi istanti prima di ogni suo apparire alla ribalta. Poco importa che si presenti con trenta o quaranta bellissime ragazze di alto fusto, tra scenari rutilanti e costumi ricchissimi, e interi sipari di pelle umana accuratamente depilata e levigata: anche tutto solo, minuscolo come un giocattolo per bambini buoni, indifeso come un bruco, è una grande forza del palcoscenico. È un’entità che si difende e vince con una sola grimace, con un gesto puerile, con un ammiccamento d’intesa. E qui si ha la prova della sua AMICIZIA col pubblico».
Quando nel gennaio 2002 ho costituito l’Associazione Culturale Macario Celebrazioni mi sono reso conto di quanto mio padre sia massicciamente e differentemente presente nell’immaginario collettivo, come tutta la sua carriera sia un puzzle intessuto con il suo pubblico e vada considerata: una evoluzione interdipendente.
Quando otteneva un successo diceva «Mi trovo in un momento magico». Analizzando la sua carriera, quel momento magico in crescendo mio padre lo ha gestito per oltre cinquant’anni, considerando i cambiamenti sociali, le oscillazioni e i mutamenti del gusto della gente, sacrificando per il pubblico le sue ambizioni e quindi contenendo, se non limitando, le sue capacità interpretative. Fin da piccolo è abituato al pubblico di cui, con il tempo, coglierà gli umori, le differenze percettive di serata in serata, di città in città, di regione in regione. Imparando, attraverso le infinite variazioni dei tempi comici e l’uso discreto dei vari dialetti, a catturarlo e farlo suo.
I suoi primissimi spettatori sono i compagni di classe della Scuola elementare Pacchiotti. Chiamato in cattedra a leggere il De Amicis, nel vederli piangere chiedeva sempre scusa. Scopre il primo amore per il teatro a undici anni con una particina nel bozzetto Il sacrificio di un innocente all’Oratorio salesiano di S. Maria Ausiliatrice, ottenendo festosi consensi da un pubblico di mamme, preti e bambini.
Con la scrittura in una compagnia di guitti affronta a Belgioioso, nel 1920, il suo primo vero pubblico semplice e rozzo, nei circoli socialisti, stalle, cortili, osterie fumose e teatri di infimo ordine. Il repertorio varia dal drammone alla sceneggiata, dall’opera in versi alla farsa. In uno stesso luogo, per attirare quel pugno di spettatori che concedeva ai teatranti la sopravvivenza, va in scena con lavori diversi che non conosce e non ha il tempo d’imparare. Seguendo dei canovacci sviluppa le basi per quella che diventerà una delle sue doti più straordinarie: l’improvvisazione.
Il destino di “comico” d’un attore drammatico lo attende con una scrittura di 15 lire al giorno nella Compagnia di “Riviste e Balli Molasso” al Teatro Romano. Nel ’23 Macario scopre a se stesso e al pubblico torinese la sua buffonesca capacità di suscitare risate e applausi, non solo con battute o monologhi, ma attraverso la mimica facciale in un linguaggio muto che sviluppa e fa suo attingendo sia dalla farsa che dalla comica finale di stampo francese (come quelle di André Deed prodotte dalla Itala Films di Torino) e di stampo americano.
Scritturato come comico grottesco dalla divina Isa Bluette che attraeva non solo il pubblico più sempliciotto alla ricerca della pura evasione, ma anche quello più pretenzioso di aristocratici, professionisti e intellettuali, Macario sperimenta e afferma a Milano (1925) la sua elettrica comicità, confrontandosi ogni sera con il gusto d’un pubblico eterogeneo da sorprendere con ogni mezzo.
Figlio d’un pittore d’affreschi emigrato in America, da lui aveva ereditato, con la determinazione e lo spirito d’avventura, la capacità di dipingere, non le tele, ma il suo volto.
Per sorprendere gli spettatori cambiava rapidamente trucco, vestiti e voci. Imitava Ferravilla, Petrolini, Charlot, si esibiva in una serie di macchiette di sua invenzione, e il pubblico rimaneva stupefatto per quell’abilissimo gioco d’illusione, rapidità e bravura che era stato appalto, fino allora, solo di Fregoli.
Quattro anni dopo, una innovazione dalla Francia attribuita da Macario alla Bluette, e dagli storici a Macario - la passerella - che virtualmente protende il palcoscenico abbracciando la buca dell’orchestra, e porta il comico, la soubrette e le ballerine in un sfarfallante carosello a diretto contatto con il pubblico.
Nel ’29 con la sua prima produzione La scoperta del mappamondo conquista al Salone Margherita il pubblico romano e l’impresario Paradossi lo scrittura al Casinò di San Remo.
Per togliersi dall’avanspettacolo in cui era stato costretto causa la recessione, forte del suggerimento di Petrolini, si spoglia dei camuffamenti e nel ’34, scritturata la platinata Hilda Springher e un corpo di ballo viennese, entra in competizione con i fratelli Schwartz, i più grandi impresari d’operetta dell’epoca. Il pubblico che gremisce il Teatro Lirico si troverà davanti alla prima grande rivista al femminile in cui tutto ruota attorno alla figura del comico, futuro mattatore e deus ex machina dello spettacolo.
Già nel ’37 Macario sente l’esigenza di costruire uno spettacolo diverso per soddisfare e catturare il pubblico dell’operetta. Con Piroscafo giallo di Bel-Ami, Macario e Carlo Rizzo, sua futura mitica spalla, debutta al Valle di Roma, forma coppia con Wanda Osiris, per lei inventa le famose scale, ma soprattutto costruisce la prima rivista a filo conduttore, anticipando di venti anni la commedia musicale.
La maschera di Macario, completata nel 1938, appare sulla copertina de Il Dramma nel ’39.
Ma se la sua maschera con il ricciolo irrompe nell’immaginario collettivo al punto che artisti come Boccasile, Onorato, Garretto, Longi, Majorana, Fellini, Fontana, Gelick, Barks, Monti, Rotella, Dalì, Manara, non esitano ad arricchirne l’interpretazione grafica, e negli anni quaranta–cinquanta viene somministrato come personaggio a fumetti per bambini su Il Corriere dei Piccoli e Il Monello disegnato da Manca, e su Il Carroccio disegnato Alessio, un’altra sua invenzione, che diventerà marchio di fabbrica dei suoi spettacoli di rivista, si fa largo come carnale onirica illusione nell’immaginario degli italiani, e ne diventa il suo mitico riferimento epocale: “Le donnine di Macario”.
L’interpretazione e storicizzazione più atipica e interessante ci viene da Alberto Bevilacqua che sul Corriere della Sera scrive: «Molti sostengono che Macario, sotto il suo ricciolo, fu affabile maschera. Niente di più errato. Fu assai più ineffabile che affabile, certamente non maschera: così come quella che passa per ricciolo appiccicato sulla sua fronte, meglio può intendersi oggi, come un punto interrogativo. Una maschera scenica, in genere, non ha invenzioni che superino se stessa; mentre le invenzioni di Macario, paragonabili spesso ai paradossi e agli estri surreali di un Achille Campanile, ben affondati nella saggezza popolare, obbligano lo spettatore a un sentimento della vita assai più arioso delle limitate tavole di un palcoscenico. Macario fu gnomo, fu elfo. Attinse alla fiaba: più francese, tuttavia, che non italica. La sua figurina dubbiosa sulle umane sorti, e quell’interrogativo esistenziale stampato sulla faccia a uovo, si sarebbe collocata felicemente tra gli scudieri alati e i buffoni di Versailles. Vedrete a stormi le sue mitiche donnine. Contorni di femmine-oggetto? Macché! Era proprio dei fauni e degli elfi il dono di evocare le forme di fate o di streghe. Ravvisabile dunque, nelle donnine formose e gaie, il sogno eterosessuale di un comico che cercava di spingerci, oltreché al sorriso, alla favolosa contentezza dei sensi, mentre la nascita di dittature varie, politiche belliche e pseudoculturali, rattristava negli italiani l’amore per il prossimo».
Mio padre, inserì la ‘enne’ nelle parole e contagiò con la nuova parlata gli italiani che entrarono in guerra chiamando cameNrata il camerata, fedNerale il federale e MuNsolini Mussolini.
La sua comicità paradossale scatena una vera e propria Macario-follia nel pubblico, non attraverso il teatro che gli è congeniale, ma attraverso lo schermo. Il film è Imputato, alzatevi! del ’39.
Nel dopoguerra, mentre nella rivista, che Macario offre al suo pubblico sempre più sfarzosa e di proporzione hollywoodiana, mantiene la maschera di Macario, nel cinema la cancella, per diventare, come indica Oreste Del Buono in Amici maestri su La Stampa, il primo anti-eroe del cinema italiano, con il volto strapazzato dell’italianetto costretto a combattere una guerra di cui non capisce il senso. In quel primo film comico neorealista Come persi la guerra del ’47 il pubblico si riconosce e sorride amaro. La pellicola campione d’incasso viene premiata al Festival di Locarno e distribuita all’estero dando a Macario popolarità internazionale.
Con la rivista Votate per Venere conquista Parigi nel ’51. Il generale De Gaulle gli invia 15 corazzieri a cavallo davanti al Teatro Etoile. Il suo francese-torinese, la sua arte mimica e le sue canzoni vengono applaudite da Fernandel, Jean Renoir, Josephine Backer, Alec Guinnes. È un trionfo. I giornali scrivono “Parigi adotta Macario”. Ma lui non tradisce il suo pubblico e rientra in Italia.
Produce il film Io, Amleto (1953, di G. Simonelli) ma, causa un complotto, la censura taglia le scene migliori. All’età di cinquant’anni Macario perde tutto quello che ha: 110 milioni di lire. Contemporaneamente lo stesso pubblico che ha disertato le sale cinematografiche lo applaude in teatro dove stabilisce incassi record.
Nel ’54 con Made in Italy di Garinei e Giovannini riforma la mitica coppia Macario-Wanda Osiris. Polizia, carabinieri, vigili del fuoco intervengono ovunque per arginare la ressa ai botteghini. Macario chiede agli spettatori di ridere sottovoce e moderare gli applausi per lasciare terminare lo spettacolo entro l’orario. La media d’incasso giornaliera è di un milione.
Successivamente Macario, che già negli anni quaranta aveva messo in scena commedie musicali di successo come Febbre azzurra di Mario Amendola, si adegua ai gusti del pubblico, abbandona la formula della rivista e, attraverso tre commedie musicali impone un nuovo modello di soubrette comica: Sandra Mondaini.
Mentre con l’avvento della televisione, forte della popolarità ottenuta attraverso i fumetti, si propone con il suo riccioletto birichino ai più piccoli nella TV dei Ragazzi con le serie di Macarietto scolaro perfetto, nella commedia musicale Chiamate Arturo 777 di Corbucci e Grimaldi si presenta con il volto al naturale e una nuova soubrette da carillon: la cantante Marisa Del Frate.
Spettatori e critica attendono ogni anno il colpo dell’incontrastato re della rivista, ma mio padre, dopo essere apparso al pubblico in un ruolo drammatico nel film di Mario Soldati Italia piccola (1957), è oramai psicologicamente pronto e deciso a riaffrontare quel teatro di prosa piemontese che si era dimostrato per lui fallimentare all’inizio degli anni trenta.
L’accoglienza del pubblico più difficile e raffinato è tale che lo stesso Eduardo gli propone la piemontesizzazione di alcune sue commedie, ma mio padre preferisce mantenersi su un teatro soft e all’insegna del divertimento, convogliando così il suo numerosissimo pubblico del teatro leggero nel suo nuovo teatro di prosa popolare. Italianizzando gli spettacoli entra in tournée nazionale raccogliendo anche quel pubblico di telespettatori che segue le sue partecipazioni televisive, dagli Special alle farse, dagli show con Mina e la Carrà alla TV dei Ragazzi, pubblico che lo vede negli spot pubblicitari e che abitualmente non va a teatro.
Fa eccezione al suo repertorio Le miserie di Monsù Travet prodotto nel ’70 dalla Stabile di Torino attraverso il quale gli spettatori si trovano, attenti e silenziosi, davanti alla più preziosa e suggestiva interpretazione teatrale dell’attore torinese.
Con gli show del sabato sera su Rai Uno Macario Uno e Due nel ’75 e Macario Più nel ’77 diretti da Vito Molinari, mio padre festeggia i suoi 50 anni di spettacolo presentando – in riduzione televisiva – il Macario della rivista e della prosa, bloccando davanti al televisore un pubblico giovane che non lo ha mai visto, ottenendo un’audience di 22 milioni e ottocento e l’incredibile gradimento fra l’80 e il 90%.
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in un messaggio inviatomi nel 2000, in occasione dei festeggiamenti torinesi di “Caro Macario” a 20 anni dalla scomparsa, ricorda: «Grazie alla sua capacità comunicativa fuori dall’ordinario, era vicino alla gente e in particolar modo ai bambini, che riusciva a incantare con un tono fanciullesco e una espressione costantemente stupefatta» probabilmente senza sapere che in Buona sera con... sua ultima serie televisiva, l’anziano comico si rivolgeva proprio ai bambini e, con la canzone della sigla Ciao nonnino!, i piccoli telespettatori dell’ultima ora lo avevano spedito in vetta all’Hit Parade, accanto a Lucio Dalla.
Bravissimo nel fare i giochi di prestigio, una volta mi disse: «Quando il pubblico non mi vorrà più, diventerò Mago Macario e andrò a fare l’illusionista nel circo».
Era il suo sogno segreto. Ma ancora, e sempre, davanti al pubblico a cui aveva già regalato scintillanti illusioni colorate per una vita.
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Mauro Macario
Genesi e metamorfosi della maschera Macario
PETROLINI – Perché non ti togli quel naso finto, la parrucca e lavori così come sei?
MACARIO – E poi con che cosa faccio ridere?
PETROLINI – Con la tua faccia, semplicemente. Hai un viso che vale un milione! Sei già tu una maschera senza bisogno di aggiungerti niente addosso.
Questo dialoghetto avvenne tra Petrolini e Macario alla fine del ’33 al Cinema Teatro Reale di Milano. Mio padre non era ancora famoso e, cosa più importante, non aveva ancora trovato la sua identità precisa. Per caricare la sua figura di elementi buffi che predisponessero il pubblico al riso, faceva uso di orpelli artificiali come una parrucca e un naso finto alla Pinocchio. L’intuizione di Petrolini, dopo averlo visto sulla scena, fu quella di “leggere” sotto il trucco di Macario la sua maschera naturale e quando andò nel camerino del giovane comico, a fine spettacolo, lo invitò a sbarazzarsi di ciò che non solamente era inutile ma anche dannoso perché copriva una fisicità già idonea a essere originale e divertente. L’intuizione del titubante Macario fu quella di seguire il consiglio di un genio dell’arte scenica precursore della modernità. È bizzarro per un figlio pensare che il padre sia diventato una “maschera” e che da qualche parte stia inventando lazzi e burla insieme a Pulcinella, Arlecchino, Gianduia e tutta la gioiosa ciurma che sul carro di Tespi, in una dimensione atemporale, si sposta nei territori della fantasia popolare. Una maschera infatti non muore del tutto, trasmigra nell’immaginario collettivo, si cristallizza nella storia del teatro che è storia del costume, diventando così patrimonio comune della tradizione.
Quando lo sbirciavo da dietro le quinte, rimanevo ipnotizzato dalle sue evoluzioni mimiche, dal suo fraseggio articolato, dalla pienezza delle sue pause dense di significati, da quel suo saltellare sul posto e ricadere su se stesso come un acrobata del proprio corpo, e mi dicevo: «Quello è mio padre, non fa il dentista, il ragioniere, l’avvocato, è una maschera, il suo compito è far ridere, e deve riuscirci subito, non ha mai una seconda occasione, non può permettersi di sbagliare, di ritardare una risposta, un colpo d’occhio, un effetto». Gli altri attori, assiepati dietro le quinte, lo guardavano come me, ma le loro domande erano di natura professionale. Si chiedevano come un attore autodidatta che non aveva mai frequentato alcuna scuola di teatro avesse potuto elaborare una così complessa partitura comica orchestrandola, a livello interpretativo, con uno stile unico e inconfondibile.
È, quella di Macario, una maschera insolita, particolare, d’assoluta originalità, formatasi in modo autarchico, senza modelli di riferimento, se non Chaplin, nella sua fase embrionale. Soprattutto una maschera che abbandonava le radici culturali per approdare alla raffinatezza dell’esprit francese. Gli altri comici, suoi coetanei, erano profondamente “italici” nella loro caratterialità, legati da una comune matrice: la realtà, la concretezza del gesto quotidiano, la cronaca sociale, il tempo storico, l’arte di arrangiarsi. Lui no, stava a un palmo da terra, incorniciato in un candore lunare, eterno bambino d’una ingenuità inquietante. Basta rivedere il film Imputato, alzatevi! (1939) e isolare il famoso numero del “gigolò” che si svolge su un palcoscenico di rivista. Macario, in quei pochi minuti che dura la canzone pare voglia condensare tutte le caratteristiche estetiche della sua maschera sfiorando il saggio “in diretta” come testamento artistico. Si osservi l’atteggiamento fisico, la gestualità danzante, la sintonia del corpo con la mobilità mimica. Si individua subito in quella figuretta di gomma qualcosa che trascende la persona fisica per trasfigurarsi in un cartone animato, in un pupazzo, in un Macario virtuale, da “effetto speciale”, ma con un’umanità che nel mondo virtuale non esiste.
Così lo descrissi nel libro di Oliviero e Castellano Stelle del varietà edito da Gremese (’89): «Macario era prodigioso e magistrale nel narrare il gioco comico con i silenzi, le intenzioni appena accennate che il pubblico completava per conto proprio, le pause dosate solo dall’istinto e dal senso del tempo, i ritmi che iniziavano larghi per chiudersi all’improvviso, quasi bruscamente nella risoluzione finale, come uno stratega dell’ilarità, e la mimica che aveva nel cosmo dei suoi occhi un epicentro orbitale che magnetizzava la folla tenendola appesa a un filo così che la dimensione del comico, come comunicazione gioiosa e stimolo liberatorio, scavalca le parole stesse, la logica del linguaggio e forse anche il proprio spazio temporale per eternarsi al di fuori delle mode in un esperanto universale che non conosce latitudini né longitudini e che sarebbe riduttivo relegare solamente in un genere circoscritto d’espressione. Era dotato di una conoscenza profonda del proprio mestiere e come un alchimista sapeva dosare le sue misture facendo sì appello all’esperienza, alla tecnica, alla completa padronanza dei suoi mezzi, ma tutti questi fattori razionali diventavano secondari, periferici al risultato, perché la vera forza inspiegabile che lo pilotava era un’energia magica che si chiama istinto e l’istinto, come propulsione creativa, non si apprende in nessuna scuola. Da sempre anticipò l’umorismo dell’assurdo, il nonsense, inconsapevolmente portato al fantastico, al poetico cui approdava con fanciullesca innocenza poggiando la gestualità corporale sull’eleganza e sulla delicatezza. Detestava la volgarità, la morbosità, l’aggressività. Era insinuante, evanescente, sfumato, procedeva per segmenti, faceva capolino tra le nuvole. La sua recitazione, fondata sulla naturalezza colloquiale, era densa di sfumature, di colori, di arabeschi, si avvicinava alla melodia musicale guidata da segrete cadenze ritmiche e da toni soffusi che si asciugavano con intelligenza nell’ironia e nel ribaltamento delle situazioni».
Quasi a suffragare questa idea d’un Macario eterno fanciullo e d’una follia innocua, di volta in volta astratta, futurista, surreale, mi viene in soccorso Alberto Savinio che scrisse: «All’apparire di Macario piccolo piccolo in mezzo al palcoscenico smisurato, le nostre pene si dileguano di colpo. I sentimenti che Macario ispira a noi sono quelli di un padre per il proprio figlio. Non ci sono azzimature in lui, eleganze, novecentismi. La specialità di Macario è fare lo stupido; come replica all’intelligenza di un compare in frac. Perché l’intelligente in questi casi risulta stupido e lo stupido intelligente? Gettata fuori la freddura la faccia di Macario si atonizza come la bocca della verità: questo il fiore della sua mimica. Macario in greco significa beato: Macario dunque, o Macario anche chi ti ascolta».
Savinio, forse erroneamente, afferma che in Macario non ci sono novecentisti, intendendo le avanguardie storiche che hanno timbrato il secolo appena trascorso. Vincenzo Mollica mi disse: «Sai, tuo padre, come del resto Totò, a livello inconscio, assorbirono qualcosa dalle varie correnti artistiche e culturali del secolo, perché certe cose sono nell’aria e possono venire recepite involontariamente e ritratte secondo la propria metabolizzazione». Ecco perché mio padre affermava d’aver fatto il teatro di Jonesco prima che Jonesco fosse nato. A conferma di ciò un giorno mi disse: «Oggi certi critici trovano delle giustificazioni un po’ troppo intellettuali su certe cose che Totò e io facevamo, invece certi exploit inconsueti nel modo di esprimerci, non erano voluti o studiati per poter dire – abbiamo fatto una cosa moderna e strana – erano frutto della spontaneità del momento».
La maschera di Macario non fu mai un oggetto teatrale statico e inanimato, al contrario il comico rifiutava il riciclaggio della stessa, cercando, ad ogni epoca, d’imprimerle l’evoluzione dei tempi sia dal punto di vista estetico che quello del costume. Il primo film Aria di paese (’33) di Giuseppe De Liguoro mostra un giovane comico ancora legato al cinema muto e affascinato dalla figura di Chaplin. Solo dopo l’incontro con Petrolini nasce la “maschera” di Macario, che per alcuni anni marcia trionfalmente per le platee italiane soprattutto con le riviste insieme a Wanda Osiris.
Quando però Macario inizierà la fortunata serie di film degli anni ’40, il cinema lo obbligherà a una prima mutazione e per ben due motivi. Il cinema ha registri ritmici e tecnici diversi dal teatro che impongono una correzione all’attore proprio nella sua gestualità, secondo fattore è che il cinema, per quanto folle e surreale, porta con sé il germe della realtà e della narrazione. La maschera quindi deve umanizzarsi e scremare i toni marionettistici e funambolici. Questo accade maggiormente con i film di Carlo Borghesio, dopo la guerra. Se durante il regime non si poteva parlare di problematiche sociali o di satira politica, con la Liberazione i registi vollero affrontare le realtà più crude. Anche Macario, a suo modo e con il film comico, entrò a pieno diritto nella grande stagione del Neorealismo italiano immergendosi nella miseria della società della ricostruzione irta di drammi sociali. Significativi, in tal senso, i due film Come persi la guerra (’47) e L’eroe della strada (’48) tutti di Borghesio.
Le mutazioni progressive di cui parlo erano invisibili al pubblico poiché riguardavano strettamente Macario in un processo interiore di mediazione tra maschera e personaggio, mantenendo inalterate le sue caratteristiche di base. Ad esempio, negli anni cinquanta nasce la commedia musicale ad opera di Garinei & Giovannini , a discapito della rivista, la cui struttura “libera” fatta di scenette recitate e balletti incomincia a invecchiare. La presenza di un filo conduttore con dei veri e propri personaggi implica ancora una volta la moderazione dell’elemento astratto a favore dell’attendibilità realistica. Verso la fine degli anni sessanta, Macario lasciò definitivamente il genere comico-musicale per tornare al suo antico amore: la prosa.
Fonda a Torino una sua compagnia stabile e approfondisce il rapporto con il teatro dialettale creando al suo posto un teatro regionale di più ampio respiro rispetto a quello ortodosso della tradizione, che possa tener conto di tematiche contemporanee come, ad esempio, l’immigrazione che ha mutato il paesaggio sociale, le abitudini e la comunicazione. Qui la spoliazione della maschera è pressoché totale. Macario, dopo essersi tolto, tanti anni prima, la maschera artificiale, si priva anche di quella naturale e ridiventa attore, un Macario multiplo per tanti personaggi. Su tutti è ricordato il Monsù Travet di Bersezio, autentico capolavoro interpretativo dove il comico di un tempo cede il posto a un attore intimista, raffinato e asciutto, che può finalmente elaborare un ritratto d’uomo con tutto l’immenso bagaglio artistico che la maturità gli mette a disposizione. Rammento intere platee commosse, con il fazzoletto in mano e gli occhi umidi che mostrano così il loro tributo d’ammirazione a una figura teatrale dal percorso lungo e complesso. |